“Vieni dentro al caldo!” tuona una voce proveniente dall’interno della stalla. Il silenzio dei prati tra Caiolo ed Albosaggia è disturbato soltanto dai passi di un cane pastore che mi studia non appena arrivo. Il pesante cancello scorrevole si apre un poco, quel tanto che basta per vedere la figura di TIto che caldamente e con entusiasmo mi invita ad entrare.
Dentro la grande stalla c’è movimento: le bestie allungano il collo possente per raggiungere e raschiare ogni centimetro possibile dei secchi pieni di foraggio che hanno dinanzi. Cecilia con passo svelto li riempie, li sposta, si assicura che ogni animale abbia il suo. Una volta fatto, si presenta con una stretta forte.
“Siamo sempre pieni di lavoro” mi dice Tito “e quando non c’è ce lo inventiamo perché siamo invasati di passione! Pensa che ieri sera alle 11 stavo giusto facendo nascere un vitello. Vieni, ti faccio fare un giro così ti racconto!”.
Lungo la strada cosparsa di ghiaccio che separa le due stalle facenti parte della sua azienda agricola, Tito mi racconta di come, sin da bambino, è sempre stato a contatto con il mondo dell’allevamento: insieme alla sua famiglia possedeva già una piccola stalla finché, nel 1987, insieme a suo fratello, ha costruito una delle prime stalle a stabulazione libera della Valtellina. Inizialmente, mi racconta, si occupava solo della produzione di latte e di formaggi. Mi racconta anche della grande soddisfazione che ha avuto nel momento in cui ha saputo che suo figlio avrebbe voluto assisterlo nel suo lavoro in stalla, rinunciando al mestiere di cuoco.
“Con il latte puoi guadagnare, sì, ma non tanto. Mi sono reso conto di avere bisogno di diversificare il mio lavoro, e ho pensato di iniziare ad allevare vacche da carne” Tito, però, mi spiega che non voleva limitarsi solo a questo: il suo allevamento di bovini da carne doveva essere di qualità, naturale, basato sul pascolo e senza l’utilizzo di antibiotici o di ogm.
“Com’è difficile, e quanto impegno ci vuole, per fare la qualità!” mi dice.
Dal canto mio, sentendomi come immerso, in quel momento, in un alone di lavoro, di fatica e di instancabilità, non ho potuto fare a meno di credergli pienamente.
“Infatti quasi non ci ho creduto, due o tre anni fa, quando ho scoperto che Pascol, questa nuova start up che stava nascendo, aveva intenzione di fare la stessa cosa. Devo davvero ringraziarli, mi hanno dato una grande mano, mi hanno dato visibilità e sono contento di essere stato uno dei primissimi, se non il primo, allevatore a collaborare con loro.”
Mentre mi racconta tutto questo, arriviamo alla seconda stalla.
Cecilia ci si avvicina in un fugace momento tra una mansione e l’altra, che svolge sempre in maniera veloce e decisa, facendoci strada all’interno. Mi mostra prima i box con le fattrici ed i piccoli vitelli nati da poco e poi, quasi con orgoglio e con un bagliore negli occhi, mi invita a vedere i possenti e muscolosi tori di piemontese. Questi, quando la vedono avvicinarsi, da sdraiati a riposo che erano, si alzano ed iniziano, con la loro mole imponente, a gironzolarle intorno. Cecilia è evidentemente e completamente a suo agio.
“Questa ragazza qui” dice Tito indicandola “otto anni fa aveva la sua scuderia con i suoi cavalli, in zona Bordighi, e veniva a prendere il fieno da me per gli animali. Ogni volta che arrivavo con il trattore o con un mezzo agricolo sembrava di vedere una bambina emozionata, gli occhi le si illuminavano: i trattori le piacciono da morire! Ogni tanto mi diceva anche che le sarebbe piaciuto trovare qualcuno che le avesse dato la possibilità di guidarli e di utilizzarli per il lavoro. Così ho colto la palla al balzo, la facevo venire con me quando finiva il lavoro in scuderia, mi facevo aiutare a falciare, o se avevo bisogno di un autista, e da lì è iniziato tutto! Così abbiamo deciso di lavorare insieme, andavamo d’accordo, e, vista anche la disponibilità dell’alpeggio, siamo andati a vedere delle stalle di piemontesi, per scegliere degli animali da ritirare. Inizialmente erano solo 15, oggi sono molte di più”.
All’incombere dell’ora di pranzo, Tito, senza esitazione, mi invita a casa sua per mangiare un piatto di pasta e continuare la nostra chicchierata. Tira fuori dalla tasca della sua giacca di lavoro il cellulare e chiama Disma, la moglie. “Aggiungi un posto a tavola, un quarto d’ora e arriviamo”.
Saluto Cecilia, la ringrazio, e seguo l’apecar di Tito districarsi tra le strade che tagliano i campi innevati.
“A me piace aggiungere il formaggio e farlo fondere sulla pasta come fossero pizzoccheri” dice DIsma, la gentile signora che mi ha accolto, mentre mi passa il piatto. Tito tira fuori dal frigo una piccola brocca di vino rosso, “Così non devo tenerla in cantina” mi spiega ammiccando.
Sul tavolo ci sono anche un grosso salame fresco e due pezzi di forme di formaggio, tutto ovviamente prodotto dalle sapienti mani di Tito. Sarà anche faticoso fare la qualità, penso tra me e me, però si sente!
Così chiedo a Tito di raccontarmi del suo alpeggio in Val di Togno, sotto le pendici del leggendario, almeno per un valtellinese, Pizzo Scalino. Gli chiedo da quanto tempo lo possiede, e che cosa ama di più di quei luoghi, cosa hanno di tanto speciale per lui e come si sente a stare lì.
“Vorrei tanto ci stesse un po’ di più, ogni volta mi illude di rimanerci per mesi ma prima o poi torna sempre!” scherza la moglie Disma mentre cerca di offrirmi altre prelibatezze.
Tito mi racconta di come tredici o quattordici anni fa ebbe l’occasione di prendere possesso di quello che è tuttora il suo alpeggio, mi disse che un suo amico allora non poteva più occuparsene, così fu costretto a darlo via. In quel momento tutto quello spazio in quella valle impervia e brulla era contesissimo: persino da fuori dalla Lombardia avevano fatto delle offerte per comprarlo. Tito mi dice di come in quell’alpeggio ha iniziato a intravedere la possibilità di ampliare il suo allevamento con le vacche da carne.
“Ho fatto proprio bene, la Val di Togno è un luogo bellissimo, selvaggio e sperduto, difficile da raggiungere, senza un collegamento diretto per le automobili e in cui non prende nemmeno il cellulare. E’ indescrivibile, oggi, la pace che provo quando mi trovo lì, per me che ho da sempre amato la natura è un immenso piacere vedere i miei animali trovarsi a proprio agio, in salute, nel luogo a loro più congeniale. Pensa che le nostre vacche fattrici, che hanno magari appena dato alla luce i loro vitelli, si ricordano dei periodi in alpeggio degli anni precedenti e fanno strada a tutte le altre che invece non ci sono mai state. So di potere stare tranquillo per i miei animali: c’è talmente tanto silenzio che si sente solo il suono dei campanacci, e so sempre, in ogni momento, dove si trova la mandria. D’estate in un paio di settimane avrò visto forse tre persone passare. Alcuni temerari, poi, vengono da ogni parte del mondo: ho un amico scrittore belga che mi chiede di potersi fermare in alpeggio solo per meditare e scrivere, e come dargli torto. La montagna per me è felicità”.
Tito mi fa intendere che però c’è sempre un rovescio della medaglia: “Quello passato è il primo anno in cui è andato tutto liscio, in effetti. Pensa che l’anno precedente, invece, un fulmine ha ucciso cinque delle mie vacche in un colpo solo. Del resto la natura è così e bisogna averne rispetto, che sia sotto il sole o sotto le tormentate giornate di diluvio, di grandine o di neve. Qualche anno fa un orso ha persino ucciso diversi dei miei asini. E questa, al tempo stesso, è anche la tristezza della montagna…ma come sto bene”.
La stufa scaldava tutta la stanza, si sentivano i crepitii dei ceppi. La pancia era piena, il caffè era finito, la sigaretta di Tito appena spenta. Ed era, di nuovo, ora di tornare al lavoro. Per Tito, come per tutti gli allevatori, non c’è mai un momento di pausa o di ferie. Andando via, tuttavia, pensavo che fosse innegabile il fatto che, nonostante questo, ogni cosa che Tito mi aveva raccontato trasudava di passione contagiosa. Mi ero convinto, guardando i suoi occhi, che di fare il suo lavoro fosse davvero felice.
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